
Negli ultimi vent’anni del mio lavoro di psicoanalista, curando persone che soffrivano di ansia, depressione e di forme più gravi di disturbo psichico, ho notato che in alcuni casi si trattava di soggetti “strutturalmente” sani sul piano mentale, ma che soffrivano di malattie di cuore e di patologie neurologiche (soprattutto Parkinson), per le quali erano portatori, con buoni risultati, di protesi e di device.

Sono per lo più stent, “reticelle” che vengono posizionate nelle arterie che nutrono il cuore per mantenerle pervie, di largo impiego, ma anche pacemaker e defibrillatori (il Registro italiano ne conta rispettivamente circa 25.000 e 19.000 impiantati ogni anno). Per quanto riguarda il Parkinson, si tratta della stimolazione cerebrale profonda dove un catetere viene inserito nel cervello per curare il tremore tipico della malattia, intervento ancora d’elezione ma che si sta ormai diffondendo.
Ipotizzando che il radicale cambiamento della vita di queste persone potesse essere correlato in tutto o in parte con la “storia” della loro protesi, ho costruito un modello che ho denominato Paradigma Bionico-Protesico. Questo modello utilizza alcune idee dell’ultimo Freud per leggere e guidare l’intervento a favore di tutti gli attori coinvolti nei trattamenti medici ad alta tecnologia: primo fra tutti il paziente. La diagnosi psichiatrica con cui sono arrivate a me queste persone in realtà impediva la comprensione dell’intera vicenda e soltanto un’ottica psicoanalitica ne ha permesso un inquadramento realistico. Si trattava di cogliere i nessi causa-effetto che, altrimenti, rischiavano di essere rubricati e curati in modo inappropriato. Al trauma della malattia si era aggiunto quello di trattamenti hi-tech che, pur dando risultati positivi, avevano modificato il profilo identitario della persona, i suoi rapporti pubblici e, anche, quelli privati. Ho notato che le protesi o i dispositivi impiantati all’interno del corpo creano più complicazioni e disagi di quelli esterni.

Un cittadino pakistano si chiedeva che fine avrebbe avuto la “vita” del suo stent, ormai parte di sé, dopo di lui; un giovane con Sindrome di Brugada (aritmia potenzialmente fatale) usava una calamita per disattivare il defibrillatore e “riposarsi” dalle scariche. Un uomo viveva con grande ansia il suo pacemaker e condivideva quest’ansia con la moglie. Un giurista restava incredulo del fatto che lo stimolatore cerebrale profondo, consentendo la riduzione dei dosaggi della levodopa (farmaco che cura la malattia ma ha anche effetti sulla libido, n.d.r), aveva contribuito a salvare il suo matrimonio minacciato dai tradimenti dovuti all’inevitabile doping della terapia contro il Parkinson.
Ritrovare la salute e la prospettiva della longevità non è una condizione statica, ma irrompe nella vita di un soggetto che, impegnato a ritrovare nuovi equilibri, viene scambiato per paziente psichiatrico e trattato come tale, rischiando di essere stigmatizzato e frainteso. Le domande inascoltate, o mute, vanno dal chi sono? Chi sono diventato? Cosa mi hanno fatto diventare? E ancora, mi hanno indotto una mutazione in un “manovratore” che non vedo e non comprendo? L’impresa di una scienza integrata consiste nel tenere insieme il metodo della medicina con considerazioni che non sono più appannaggio soltanto della psicoanalisi e con mutazioni dell’identità individuale. Tenendo anche conto dell’evoluzione del costume e delle concezioni del corpo.
L’esperienza di questi giorni in corso di epidemia da Covid-19 ci dice che la scienza pensa all’uomo come a un manichino, un soldatino di piombo, un solo-corpo statico privo di strategie “intelligenti” quando si tratta di fronteggiare un agente o un nemico che mette a rischio la sopravvivenza dell’individuo e della specie. L’esperienza personale e quella scientifica ci dicono che ciascuno di noi è portatore di una memoria, di un’esperienza e di una sorprendente capacità di risposta a patto di non essere minato da una demotivazione di fondo, di non aver inconsciamente gettato la spugna; il nichilismo terapeutico ne è il corrispettivo nella classe medica.
I mutanti cyborg “guariti” sono soggetti bisognosi di ascolto delle loro inedite esperienze, di osservazione dei loro movimenti di riadattamento. In questo ci aiutano la descrizione delle paure, i sogni e i progetti di rilancio esistenziale. Purtroppo gli strumenti di misurazione di queste reazioni sono rigidi, aridi, ideologici, e incapaci di catturare il sogno, l’intuizione, lo slancio che veicolano tutta l’enorme ricchezza creativa e curativa dell’apparato psichico.
Forse le categorie con cui ci formiamo noi psicoanalisti, attenzione fluttuante tra l’interno e l’esterno, tra la parola e l’immagine, tra il sé e l’altro, tra l’ineffabile del sogno e le coordinate fondative della scienza, sono le stesse che possono cominciare a ispirare la cura dei pazienti della medicina tecnologica, riducendo la demotivazione e il burnout degli operatori.
Immagine di apertura: foto di Gerd Altmann