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Lo psicoanalista racconta: “Così curo il disagio dell’uomo high tech”

Negli ultimi vent’anni del mio lavoro di psicoanalista, curando persone che soffrivano di ansia, depressione e di forme più gravi di disturbo psichico, ho notato che in alcuni casi si trattava di soggetti “strutturalmente” sani sul piano mentale, ma che soffrivano di malattie di cuore e di patologie neurologiche (soprattutto Parkinson), per le quali erano portatori, con buoni risultati, di protesi e di device.

Due radiologi osservano una lastra del torace di una persona cui è stato impiantato un pace-maker (foto Freepik)

Sono per lo più stent, “reticelle” che vengono posizionate nelle arterie che nutrono il cuore per mantenerle pervie, di largo impiego, ma anche pacemaker e defibrillatori (il Registro italiano ne conta rispettivamente circa 25.000 e 19.000 impiantati ogni anno). Per quanto riguarda il Parkinson, si tratta della stimolazione cerebrale profonda dove un catetere viene inserito nel cervello per curare il tremore tipico della malattia, intervento ancora d’elezione ma che si sta ormai diffondendo.
Ipotizzando che il radicale cambiamento della vita di queste persone potesse essere correlato in tutto o in parte con la “storia” della loro protesi, ho costruito un modello che ho denominato Paradigma Bionico-Protesico. Questo modello utilizza alcune idee dell’ultimo Freud per leggere e guidare l’intervento a favore di tutti gli attori coinvolti nei trattamenti medici ad alta tecnologia: primo fra tutti il paziente. La diagnosi psichiatrica con cui sono arrivate a me queste persone in realtà impediva la comprensione dell’intera vicenda e soltanto un’ottica psicoanalitica ne ha permesso un inquadramento realistico. Si trattava di cogliere i nessi causa-effetto che, altrimenti, rischiavano di essere rubricati e curati in modo inappropriato. Al trauma della malattia si era aggiunto quello di trattamenti hi-tech che, pur dando risultati positivi, avevano modificato il profilo identitario della persona, i suoi rapporti pubblici e, anche, quelli privati. Ho notato che le protesi o i dispositivi impiantati all’interno del corpo creano più complicazioni e disagi di quelli esterni.

“Fuori di sé”, di Augusto Iossa Fasano (Edizioni ETS) propone un modello di cura per il disagio psichico di chi è portatore di endoprotesi

Un cittadino pakistano si chiedeva che fine avrebbe avuto la “vita” del suo stent, ormai parte di sé, dopo di lui; un giovane con Sindrome di Brugada (aritmia potenzialmente fatale) usava una calamita per disattivare il defibrillatore e “riposarsi” dalle scariche. Un uomo viveva con grande ansia il suo pacemaker e condivideva quest’ansia con la moglie. Un giurista restava incredulo del fatto che lo stimolatore cerebrale profondo, consentendo la riduzione dei dosaggi della levodopa (farmaco che cura la malattia ma ha anche effetti sulla libido, n.d.r), aveva contribuito a salvare il suo matrimonio minacciato dai tradimenti dovuti all’inevitabile doping della terapia contro il Parkinson.
Ritrovare la salute e la prospettiva della longevità non è una condizione statica, ma irrompe nella vita di un soggetto che, impegnato a ritrovare nuovi equilibri, viene scambiato per paziente psichiatrico e trattato come tale, rischiando di essere stigmatizzato e frainteso. Le domande inascoltate, o mute, vanno dal chi sono? Chi sono diventato? Cosa mi hanno fatto diventare? E ancora, mi hanno indotto una mutazione in un “manovratore” che non vedo e non comprendo? L’impresa di una scienza integrata consiste nel tenere insieme il metodo della medicina con considerazioni che non sono più appannaggio soltanto della psicoanalisi e con mutazioni dell’identità individuale. Tenendo anche conto dell’evoluzione del costume e delle concezioni del corpo.

L’esperienza di questi giorni in corso di epidemia da Covid-19 ci dice che la scienza pensa all’uomo come a un manichino, un soldatino di piombo, un solo-corpo statico privo di strategie “intelligenti” quando si tratta di fronteggiare un agente o un nemico che mette a rischio la sopravvivenza dell’individuo e della specie. L’esperienza personale e quella scientifica ci dicono che ciascuno di noi è portatore di una memoria, di un’esperienza e di una sorprendente capacità di risposta a patto di non essere minato da una demotivazione di fondo, di non aver inconsciamente gettato la spugna; il nichilismo terapeutico ne è il corrispettivo nella classe medica.
I mutanti cyborg “guariti” sono soggetti bisognosi di ascolto delle loro inedite esperienze, di osservazione dei loro movimenti di riadattamento. In questo ci aiutano la descrizione delle paure, i sogni e i progetti di rilancio esistenziale. Purtroppo gli strumenti di misurazione di queste reazioni sono rigidi, aridi, ideologici, e incapaci di catturare il sogno, l’intuizione, lo slancio che veicolano tutta l’enorme ricchezza creativa e curativa dell’apparato psichico.
Forse le categorie con cui ci formiamo noi psicoanalisti, attenzione fluttuante tra l’interno e l’esterno, tra la parola e l’immagine, tra il sé e l’altro, tra l’ineffabile del sogno e le coordinate fondative della scienza, sono le stesse che possono cominciare a ispirare la cura dei pazienti della medicina tecnologica, riducendo la demotivazione e il burnout degli operatori.

Immagine di apertura: foto di Gerd Altmann

La tecnica della Psicoanalisi

https://images.app.goo.gl/ixKrp9jWojeAnsAW8


Autore: Ella Freeman Sharpe a cura di A. Iossa Fasano
Editore: Luca Sossella
Anno: 2018
Pagine: 146
Costo:
Gianluca Garrapa: La tecnica della psicoanalisi, di Ella Freeman Sharpe, a cura di Augusto Iossa Fasano, traduzione di Luca Rosi, nella collana diretta da Sergio Finzi edito per Luca Sossella nel 2018, è anche, e forse soprattutto, un’arte. Per essere e ascoltare in quanto analisti, o analiste, è necessario avvalersi di una conoscenza che vada aldilà del sintomo, sia in chiave psicologica che neurologica, insomma: conoscere l’altro implica che si sappia quella che è la struttura dell’Altro, le sue letture, i suoi hobby, lo sport, la musica che ascolta, che vestiti preferisce indossare. In psicoanalisi non si può tralasciare nulla e, come nel teatro, ogni dettaglio è precipizio e vertigine di senso, che può distogliere o far indovinare la strada giusta o deviarci verso fraintendimenti e fasi di stallo in cui si arena il rapporto con l’analizzando o con l’analizzante. In questo senso, come scrive Augusto Iossa Fasano nell’introduzione: all’analista sono indispensabili i dettagli di un dramma, almeno quanto il conoscere il funzionamento di macchinari, le procedure delle arti plastiche o di regolamenti sportivi o altre nozioni oppure forme della credenza che il paziente presenta in seduta, e in particolare il teatro, il theatron del vedere oltre il sintomo-etichetta di certo tecnicismo che non tiene misura del soggetto hic et nunc, che abbiamo davanti, in seduta.
Il dramma della storia, la sua iconologia, ci aiuta, e aiuta Ella Sharpe, a comprendere: Prendete questo esempio: una paziente ha un’esitazione mentre sta esprimendo un pensiero. Dice: “Mi sono interrotta all’improvviso pensando a Porzia, non a quella Porzia, ma alla Porzia di Bruto. Non voglio pensarci, lei non mi piace”. La paziente torna allora agli argomenti precedenti. Ora, se io conosco la storia della Porzia di Bruto, posso individuare immediatamente il tema inconscio contro cui sono dirette le resistenze. So che c’è un legame tra i sintomi di conversione di questa particolare paziente e il fatto che la Porzia di Bruto si sia inferta una ferita per uno scopo preciso. La paziente ha inconsciamente selezionato, con fiuto infallibile, una rappresentazione della sua psicologia inconscia. Ecco: il riferimento al personaggio storico che, a quanto narra Plutarco, sappiamo essersi ferita per far comprendere a Bruto, suo secondo marito dopo la morte per malattia del primo marito, Bibulo, l’odio nei confronti del dittatore Cesare, a causa del quale Catone l’Uticense, padre di Porzia, si suicidò pur di non cadere nelle sue mani, del dittatore. Porzia, dunque, fa passare sul suo corpo un significante ben preciso. L’intransigenza e la vendetta diventano rappresentazione del corpo tagliato. La ferita del corpo diventa segno, sintomo, metafora. L’inconscio ha ben sentito quale parole proporre per legittimare i sintomi di conversione della paziente. Non di sole parole ‘quotidiane’, importantissime, per altro, dunque, può vivere un’analisi, ma pure di corpi e ferite nascoste e ferite raffigurate a simbolo di drammi interiori, di storia e di iconografie, immagini, riferimenti letterari, leggende: in un’analisi, ho dovuto ricorrere a un’intima conoscenza del Peer Gynt per un pronto riconoscimento dei ruoli che Asa, Ingrid e Solveig ricoprivano in quel momento nelle identificazioni della paziente. E anche i tempi storici e politici si rispecchiano, si rimandano, politici in quanto la psiche non è uno spazio-tempo concluso dentro un corpo, o dentro un circuito psichico o neuropsichico, niente affatto! L’inconscio si estende all’esterno, alle forme, alle quantità e alle serie che avvengono nel materiale e il corpo, in quanto superficie, non smette di iscriversi in uno svelamento di ferite, cicatrici e profondità evidenti: e non smette di muoversi elicitando percorsi e gesti, all’apparenza asemici, ma significanti agli occhi e al senso di chi li ha già visitati dentro il proprio inconscio, come scrive Fasano nell’introduzione: l’apparato psichico non va mai disgiunto dallo spazio corporeo (la piccola ferita al piede che Porzia si infligge) né da quello politico, nel senso delle tensioni dinamiche o delle pratiche di negoziato nella “polis” (uno dei contesti dove la psiche si estende) e più oltre: Le proprietà del metodo freudiano non si limitano alle funzioni psichiche del singolo soggetto; da possibilità l’attitude si trasforma in attualità nel campo sociale e naturale.
 
Ecco, cosa s’intende per spazio corporeo e per contesto politico, luoghi da cui l’apparato psichico non può disgiungersi? e come si realizza l’attitude?
 
 
Augusto Iossa Fasano: L’attitude non è solo l’attitudine intesa in senso semplice e riduttivo come cognizione con le relative implicazioni quali l’intelletto, la motivazione, la decisione e altre funzioni che potremmo considerare appannaggio dell’Io. Va considerata la dimensione dello spazio esteso (Latitude) in relazione all’apparato psichico, all’Es che accoglie ed elabora le rappresentazioni del visibile come luce, forma e colore che permettono al soggetto di conquistare il suo posto nell’economia (Politeia/Polity/Policy) della natura. Dove il secondo termine, Polity, è quello che meglio tocca le corrispondenze tra psiche e ambiente attraverso la nozione di barriera molle o permeabile, una barriera che impedisce e che facilita. La medicina, l’idraulica e la biologia, ma soprattutto geometria, architettura e grafica si reggono sulla nozione di barriera e di rappresentazione in relazione alla Darstellung, la raffigurazione, prima che alla Vorstellung, ovvero agli aspetti filosofici e concettuali.
 
G.G.: Ho letto con molto interesse questo libro sia perché ho conosciuto personalmente il percorso analitico, che mi ha letteralmente spalancato le porte della percezione, come direbbe il poeta William Blake, sia perché uno dei tanti aspetti affascinanti di questo saggio sono i consigli di lettura di Ella Sharpe agli aspiranti psicoanalisti, sia, infine, perché la lettura si è rivelata ben presto autoanalitica: conoscere sé stessi è importante per ogni esistenza umana, e di più per chi agisce la propria professionalità nell’ambito dell’ascolto del disagio dell’Altro.
Dunque vediamo le indicazioni letterarie, che Fasano definisce, almeno per i primi testi consigliati, piuttosto bizzarre, e che contribuiscono, insieme all’analisi personale, a coltivare l’attitudine alla scienza come all’arte: Ella Sharpe ne parla nella Prima Lezione, dedicata all’Analista, e intitolata ‘Requisiti essenziali per l’acquisizione della tecnica’: la ricostruzione del periodo infantile è un processo essenziale nell’analisi di un adulto. Le fantasie, le finzioni, i giochi fatti, quelli non fatti, saranno la via principale alla vita inconscia. In un’ideale lista di letture per la formazione analitica, inserirei, come testi obbligatori, questi libri: Le filastrocche, Alice nel paese delle meraviglie, La caccia allo Snark, Grimm, Andersen, i libri di Fratel Coniglietto, I bambini acquatici, Pierino Porcospino, Ondina, Tremotino, Peter Ibbetson, Miti e tragedie greche, le opere di Shakespeare.
Freud sapeva che i poeti anticipano, come scrive anche Virginia Finzi Ghisi, nell’appendice al volume, riferendosi alla poesia che Winnicott evoca all’inizio del suo saggio. I poeti l’hanno già detto, io devo affrontarlo, anticipano, o per lo meno fanno emergere, certe tematiche psicoanalitiche che saranno il cuore di grandi rivoluzioni nella Storia delle Idee, l’Edipo re di Sofocle è la prima opera che mi viene in mente, Alice nel paese delle meraviglie di Lewis Carroll l’associo più che alla Logica del Senso di Deleuze, a quel testo che anche Fasano cita nell’introduzione al volume, cioè l’Inconscio come insiemi infiniti dello psicoanalista cileno Ignacio Matte Blanco, nel paragrafo in cui si racconta l’importanza che la seduta psicoanalitica deve attribuire al suono della voce: l’immateriale che presentifica concreti conflitti inconsci: il suono della voce umana, è a un tempo strumento e oggetto di lavorazione inconscia: figure retoriche, allitterazioni, similitudini sono fenomeni che, tra l’astratto e il concreto, correlano stati mentali, spazio corporeo e spazio esteso: una sorta di consapevolezza che in ambiente psicoanalitico bisogna fare propria, esercitandosi a uno stravolgimento delle percezioni quotidiane, anche antropologiche, e preparandosi ad ascoltare l’inaudibile, sorprendere i fantasmi di quella scenografia inconscia in cui un ‘attore’ in analisi si muove nel suo rapporto con il desiderio, praticare e inserirsi nelle difese del paziente tradite dal suono della voce: Ho trovato che le modificazioni della voce possono essere un indice attendibile delle variazioni a carico dei conflitti, scrive Ella Sharpe tradendo anche la natura esperienziale di quello che, a ragione, può apparire un diario di bordo in cui teoria e clinica si intersecano e remano a favore di un bastimento carico sul mare della conoscenza interminabile di sé.
Dunque più piani di conoscenza si intrecciano e il rapporto dell’arte con la psicoanalisi non è affatto inteso come un’interpretazione coatta e simbolica degli stilemi e dei contenuti di un singolo artista, sì invece come un modo di accostare il linguaggio dell’inconscio a quello dell’arte, di considerare la conoscenza tecnica al pari di quella artistica e scientifica. Quello di Ella Sharpe, però, è un pensiero ‘predigitale’.
 
Ci spieghi come questo spazio esteso, come la lettura di classici poetici e letterari, come la pazienza dell’auscultazione interiore e dell’ascolto dell’altro si sono trasformati in quest’epoca profondamente digitalizzata e narcisista? C’è da essere ottimisti? Il virtuale può essere un buon amplificatore inconscio, un ‘inconscio elettrico’?
 
A.I.F.: I due conflitti mondiali hanno immesso il fuoco nella società civile e nella vita quotidiana: il medium comunicativo viene dapprima elettrificato poi regolato dall’elettronica e infine dall’intelligenza artificiale. Non c’è scelta, non c’è scampo. Il vivo e il morto, l’autentico e l’inautentico, l’esterno e l’interno si sono ibridati in termini ormai indistinguibili, ma ancora analizzabili. Analizzabili a patto di tener conto di queste aporie. Il contributo di Ella Sharpe sottolinea il registro psicoanalitico della tradizione, del narrativo, del dispositivo materiale meccanico e analogico. Virtuale e digitale sono un potentissimo amplificatore del contenuto inconscio che rischia di sbilanciare la componente dell’INC, quel dato inconscio. La lezione della Sharpe ci conferma che è possibile tenere in piedi entrambi i registri: materiale e immateriale, analogico e virtuale, scritto (cartaceo) e orale (audio/visivo digitale multimediale). Registro della realtà esterna e dimensione onirica a partire dalle leggi e regole del livello manifesto del sogno.
 
G.G.: La psicoanalisi smette di essere una scienza viva nel momento in cui la tecnica cessa di essere un’arte, scrive Ella Sharpe. Mi verrebbe da dire che la psicoanalisi cessa di essere un’arte laddove non si riuscisse più a percepire, e dunque ascoltare, rispettare l’altro, l’altro soggetto, lo sfondo politico, sociale, quello spazio che divide separando la figura dello sfondo.
Verrebbe a mancare l’arte e la scienza laddove, probabilmente, non ci fosse una giusta misura di ordine e spontaneità. Un termine molto usato da Sharpe è ‘fantasia’: Raggiungere la segreta vita di fantasia significherà eventualmente non solo pervenire alla verità del conflitto psichico, ma anche alla verità dell’infanzia reale sottoposta al meccanismo della negazione. E anche la realtà ha il suo specifico peso, e una fuga nella realtà a discapito della fantasia è altrettanto patologica e letale che la fuga inversa, il rifugio nella fantasia psicotica, delirante. Trasformare la magia, il sintomo di una coazione, il rifugio nella fantasia delirante, significa, innanzitutto, far venire a galla il nodo del conflitto: quegli atti magici e quei sistemi di fantasia, che non rivestono alcun valore di realtà, scompariranno quando portati alla coscienza. La magia si trasformerà in arte, scienza, medicina, psicoanalisi, in tutto ciò che è alla portata del talento naturale dell’individuo.
Per secoli l’arte figurativa ha sempre concepito una cornice, un dentro e un fuori: lo spettatore è stato educato a percepirsi come dentro il flusso e fuori dal flusso, nel limine, a esperire l’estetica dentro la cornice come sostanzialmente opposta, anche se altrettanto vivificante, all’esperienza reale. Anche opere come la Pietà del Sacro Monte di Varallo, per quanto pervasiva rispetto alle opere dell’epoca, lasciava ancora adito alla speranza del bello artistico come catarsi del meccanismo né bello né brutto della vita reale, persino il trompe-l’oeil, le illusioni barocche, vertiginose verso l’alto, vorticose dentro l’altro, persino il teatro dopo l’abbattimento della quarta parete, mantiene il limite del simbolico rispetto all’immaginario e preserva la giusta via etica all’interno dell’esperienza del reale. Nella realtà immersiva, siamo immersi in un mondo altro, in cui non vi è più cornice: siamo dentro quello che vediamo, a differenza della realtà virtuale aumentata in cui un nesso con la realtà rimane ancora. Sembrerebbe un discorso, questo, lontanissimo mille miglia e mille tempi, dalle parole di Ella Sharpe, e invece, proprio leggendo un passaggio della sua lezione sull’angoscia, (più il senso di realtà viene inficiato, più aumenterà l’angoscia ogni volta che l’Io si ritroverà circondato da queste forze), ho avuto la sensazione che ci fosse uno stretto rapporto tra il mondo delle immagini costruite al computer, il debordare di fake news, la digitalizzazione della realtà e la crescente violenza come reazione a una profonda angoscia, anche nelle scuole, per esempio.
D’altra parte, più avanti, nella lezione sulle Variazioni della tecnica nelle diverse nevrosi, Ella Sharpe spiega che raggiungere la segreta vita di fantasia significherà eventualmente non solo pervenire alla verità del conflitto psichico, ma anche alla verità dell’infanzia reale sottoposta al meccanismo della negazione.
La realtà aumentata è molto usata in ambito medico, anche le protesi non sono che un innesto di inorganico su un organismo. La realtà immersiva e quella aumentata stanno iniziando a farsi avanti nella cura dei disturbi dell’autismo.
 
Cosa ne pensi? Come potrebbe essere una seduta psicoanalitica immersiva, con un paziente che visualizza le storie che elicita?
 
A.I.F.: Credo che occorrano ricerche/intervento compiute con nativi e con didatti formatori di derivazione freudiana, corretta secondo le scoperte del Piccolo Hans: luogo della fobia, protesi, l’essere figlio del Godimento-del-Padre e Madre-misura, cui ho aggiunto il PBP, il Paradigma Bionico Protesico, che distingue protesi esterna da quella esterna. Su questa base ho condotto due trattamenti su Second Life che hanno evidenziato l’idea di Gabriele Frasca relativa alla persistenza dell’emozione della guerra mediale cui il Nevrotico di guerra in tempo di pace si uniforma secondo i lineamenti descritti da Sergio Finzi.
 
G.G.: Il testo di Ella Sharpe interessa tutti e tutte: anche il concetto di normalità non sfugge al vaglio della clinica. Dopo aver trattato la nevrosi, il delirio e la conversione (Variazioni della tecnica nelle diverse nevrosi), la cui sostanziale cifra comune è l’inadeguatezza nei confronti della realtà e la sicurezza cui si vuol pervenire è ottenuta o con il diniego della realtà, nel caso del delirio, o con il sistema ossessivo dei rituali o con i sintomi di conversione corporea, per cui l’espiazione del peccato è stata raggiunta tramite la sofferenza corporea. Si tratta di questo: sensi di colpa che l’Io cerca di attutire, a fronte della potenza dei desideri inaccettabili dell’Es e dell’ostilità, per reazione, del severo Super-Io, meccaniche conflittuali che, come ci viene insegnato nella lezione successiva, La tecnica nell’analisi del carattere, non sono caratteri di reazione esclusivamente dei diversi tipi nevrotici, ossessivi, deliranti o isterici, o dei diversi modi psicotici di pervenire a patti con il reale della realtà alla ricerca esasperata e dolorosa di una “giustificazione dell’esistenza”: Sharpe, infatti, sfata il mito del normale vs patologico, riducendo la differenza solo a un diverso rapporto tra realtà e fantasia: L’unica differenza essenziale che ho trovato tra nevrotici e normali non sta nel fatto che i desideri dell’Es siano meno ostili, o che la severità del Super-Io sia meno implacabile, o che manchino credenze magiche, o che l’onnipotenza infantile sia minore; quanto piuttosto in un qualche sistema di realtà nel quale il conflitto viene giocato, o risolto, in relazione a persone reali e cose reali.
A mio parere, quel che di rilevante è in queste affermazioni, è l’opportunità di estendere un discorso clinico-scientifico a un regime etico di convivenza civile: questo tipo di logica include ogni diversità tale da permetterci di non creare ghetti predefiniti tra normale e patologico. La psicoanalisi non può che essere etica nel senso di far aprire gli occhi e la mente sulle diversità apparenti: la psicoanalisi, che sorse come una branca della medicina, si trova ad affrontare non solo la malattia mentale, ma l’intero problema dello sviluppo psichico del genere umano. Nel cosiddetto normale abbiamo un esito del conflitto interno diverso rispetto a quello che vediamo nelle nevrosi manifeste, ma non c’è alcuna differenza nel vero e proprio conflitto inconscio che giace al di sotto della coscienza.
 
D’altra parte, Ella Sharpe, già alcune lezioni prima, in quella sull’Analista, per esempio, scrive: Ha detto un poeta a proposito di Virgilio:
 
Nelle tue mani hai preso tavolette incerate,
e dalla rabbia hai intagliato tranquille storie di casa.
 
Fuori dalla stanza di consultazione, abbiamo bisogno di vedere la vita nella sua interezza e di ricordare che la nostra cultura è inseparabile dai nostri conflitti.
 
E non credo ci sia bisogno di aggiungere altro. O forse sì, aggiungerei quello che scrive Fasano nelle sue pagine introduttive: Ella Sharpe, insegnante di letteratura, approda alla psicoanalisi poco prima della fine della Grande Guerra, evento che l’aveva privata di persone cui era legata da rapporti di profondo affetto: amici, colleghi e allievi. Quindi non solo lo spazio tipografico del libro di medicina, o le foto di neuropatologia, le mura della clinica, il pavimento percorso e ripercorso dello studio psicoanalitico, non solo il sogno che pare nostro e che è di tutti, (‘il sogno è comunista’, direbbe Sergio Finzi, che è anche il curatore della collana cui appartiene il volume che stiamo trattando), rientra nell’interesse della psicoanalisi, ma anche lo spazio fuori, quello del balcone, della piazza e della storia politica e sociale di un popolo. Scrive Sharpe nella lezione sull’Angoscia: crisi e risoluzione: “Che farabutti saremmo se facessimo per noi quel che facciamo per la patria” disse Cavour. Machiavelli e Napoleone sono paradigmatici in questo senso. La pulsione interna data dall’angoscia costringe il conquistatore a esteriorizzare le sue problematiche in riferimento alla sua nazione, con la quale egli si identifica.
 
Ma tornando al capitolo sulla tecnica nell’analisi del carattere, ecco le parole che chiudono questa lezione, parole che oggi suonerebbero quasi provocatorie nei confronti di un certo tipo di politica e addirittura deliranti alle orecchie di una certa tendenza reazionaria, claustrofobica, razzista del pensiero unico: in psicoanalisi, più che in tutte le altre scienze e arti, dovremmo essere in grado, tramite la conoscenza di noi stessi, di scoprire un’unità e una solidarietà oltre tutte le individualità, in cui la nostra singolare, prefissata ricerca della verità dovrebbe dare i suoi frutti, attraverso noi in quanto individui e noi in quanto comunità.
 
Che bella la parola: ‘comunità’! In questo senso, quale ruolo potrà avere la psicoanalisi in una società, ahimè, sempre più violenta e segregazionista?
 
A.I.F.: Credo che tutti gli operatori del campo psi debbano tenere conto del contesto in cui operano e prendere posizione nella misura in cui viene consentito e in rapporto a modelli e concezioni che spesso sono mutuati dal pensiero psicotico o da quello marginale che chiedono di dialogare con la dimensione nevrotica e isterica come argine e prevenzione alla perversione che invece mira (la mira dell’INC) al sabotaggio, al collasso e alla distruzione della psiche, specie nelle sue componenti creative, imprevedibili, non omologate.
 
G.G.: Fasano scrive: Il “Contributo presentato a un simposio sull’analisi infantile” è il resoconto di un pionieristico trattamento di una quindicenne interrotto dopo poche sedute, forse in relazione a una precoce interpretazione dell’analista.
Una caratteristica fondamentale di questo saggio è l’idea, e la pratica, che per diventare psicoanalisti o psicoanaliste, prima di affrontare un paziente nei suoi deliri e nelle sue nevrosi, è fondamentale lavorare sui nostri limiti, sulla nostra tendenza a giudicare l’altro in base a quel Super-Io infantile che inquina la lettura del mondo e la carica di pregiudizi: un compito questo che dovrebbe riguardare tutti, a esempio nella scuola, o nelle situazioni in cui si opera con gli adolescenti, in ogni caso quando si ha a che fare con lo specchio di noi stessi bambini. Ogni incontro con l’altro, che dobbiamo aiutare per fargli superare il suo inferno, cela la trappola del nostro inferno che abbiamo razionalizzato, o persino rimosso, o camuffato con le parole-etichette di un manuale diagnostico, ogni analisi dell’altro è un’analisi del nostro altro interiore: Dopo questa seduta, cominciai a provare un certo disagio. Mi ritrovai a dubitare della giustezza di un’interpretazione così diretta e precoce circa il simbolismo della masturbazione. La mia intima difficoltà mi convinse a guardare meglio dentro di me. scrive Ella Sharpe e nella conclusione del Contributo presentato a un simposio sull’analisi infantile dichiara, appunto, come quel Super-Io infantile può diventare un incomodo, un disturbante fantasma nella relazione tra analista, bambino e genitori: di qui la necessità di sottoporre a analisi lo strato più profondo dell’analista.
 
Da questo punto di vista, qual è lo stato attuale, per quanto riguarda l’autoconsapevolezza della psicoanalisi a analizzare sé stessa?
 
A.I.F.: Se prendiamo il numero 3 del 50° anno di una rivista parallela e coeva al Piccolo Hans, cioè Psicoterapia e Scienze Umane, leggiamo le risposte di autorevoli psicoanalisti, rileviamo una grande eterogeneità di questioni e dunque una certa ricchezza di temi, ma in effetti notiamo una forte autoreferenzialità, scarsa auto-critica e insufficiente consapevolezza dei mezzi specie in relazione al rapporto tra teoria psicoanalitica e spazio ovvero mondo esterno, realtà materiale. Se non c’è una concezione forte a tal proposito non ci sarà un modello relativo al virtuale, al bionico, al mutante. E nemmeno alle neuroscienze di cui si rincorre metodo, privo di clinica, e teoria priva del senso dell’ignoto (e relativo spaesamento o turbamento)
 
G.G.: La nota finale del volume sulla Magia dei nomi è del 1946, l’anno precedente la morte di Ella Sharpe. Due paginette dense, e impressionanti per la modernità del pensiero, in cui la ‘magia’ richiama proprio il pensiero magico che guida le masse su cui si è anche concentrato lo studio di Freud. La critica è rivolta all’uso improprio, secondo l’autrice, dei termini ‘buono’ e ‘cattivo’: Il fatto che non siamo in grado di reperire epiteti maggiormente discriminanti, non lo si potrebbe forse addebitare al potente incantesimo che viene messo in atto attraverso la semplice ripetizione di “l’Oggetto Buono”, “l’Oggetto Cattivo”? E non potrebbe essere la prova sufficiente di una comune, inconscia credenza nella magia bianca e nera? Queste parole mi fanno venire in mente, per contro, un certo modo di ragionare dicotomico e egocentrico della società attuale: noi e loro, gli uguali e i diversi. In sostanza, anche qui, l’impegno di Ella Sharpe, non si chiude mai nella clinica del caso e della patologia, ma si apre al sociale, alla struttura profonda delle masse. Fasano scrive, a proposito, introducendo le Sette Lezioni di Ella Sharpe: Se la sua tesi avesse ricevuto maggior attenzione sul piano teorico e se avesse ricevuto ascolto, la storia della psicoanalisi sarebbe cambiata.
 
In che senso sarebbe cambiata la storia della psicoanalisi?
 
A.I.F.: La comunità analitica sarebbe stata meno preda delle suggestioni alla Jung o Reich e meno rigidamente ancorata a tecniche interpretative dogmatiche come nel Kleinismo del quale è criticabile non la teoria, ma il metodo “ortodosso”.
 
G.G.: Poche pagine prima, scrivi: Ella Sharpe, dopo Freud, e Virginia Finzi Ghisi, dopo Freud e Lacan, sono autrici che qualsiasi psicoterapeuta e psicoanalista non può ignorare, specie se alle prime armi. Credi che il movimento psicoanalitico soffra ancora di un certo maschilismo?
 
A.I.F.: Di sicuro, ma non in senso “femminista”, ritengo che persistano modalità autoritarie e di repressione del pensiero che mantengono forti tendenze perverse. Abbiamo volutamente omesso di tradurre la presentazione di Ernst Jones ai Collected Papers che fa buon viso alla presenza di una letterata, lui neurologo gallese ostile alla presenza femminile laica nel nascente movimento psicoanalitico.
 
G.G.: Queste Lezioni sono state tradotte da Luca Rosi, la curatela è di Augusto Iossa Fasano e in appendice è il saggio di Virginia Finzi Ghisi dal titolo Vuoto di sapere e istinto di ricerca. Nel saggio che chiude egregiamente il volume edito da Luca Sossella, oltre al tema del titolo, si tratta della questione dell’assenza di una parola inglese che equivalga al tedesco “Angst” o all’italiano “angoscia”.
Le parole di questo saggio rivalutano l’angoscia da sistema che blocca, a vuoto da colmare e propulsivo: L’angoscia, di fatto, si colloca proprio sull’orlo di un vuoto di sapere. E lo minaccia del venir meno di qualcosa che si sa, di fronte alla misura del divario che si annuncia tra il soggetto e il resto, desiderio che avvia l’istinto di ricerca. Un ampio terreno da conquistare e irrigare. La fobia è quella di antichi conquistatori alle prese con il vasto vuoto da nominare e ordinare. Un’operazione geografica e poetica, psichica e urbanistica, meccanica e letteraria.
 
Dunque quali difficoltà comporta ‘tradurre’ l’inconscio da una lingua all’altra? In particolare penso alle culture che non hanno quella concezione di inconscio caratteristica dell’Occidente freudiano, per così dire. Come cambia il sintomo al variare delle parole che usiamo per spiegare l’angoscia?
 
A.I.F.: Angoscia (Angst in tedesco), ansia, ansietà, in italiano abbiamo più gradi e nuance dell’affetto cardine, l’Affekte freudiano, mentre in inglese hanno solo anxiety e semmai agony, dunque un estremo terminale a fronte di uno stato d’animo annacquato che non sembra in grado di spingere il soggetto dal sintomo e dall’inibizione alla domanda di analisi e alla sua in-terminabilità, (“un-endlichkeit”). Probabilmente tra referente, significante e significanti c’è molta più fluttuazione multidirezionale di quanto la linguistica strutturale di derivazione saussurriana ci faccia pensare. Non solo Bollas, ma anche autori come Akhtar che provengono dalla filosofia ontologica contemporanea, chissà perché, hanno studiato la psicoanalisi in Cina, Corea e Giappone. Forse il sistema ideografico, la struttura economico-demografica spingono piuttosto che precludere l’analisi della soggettività. C’è multi-linearità a partire dalla psicologia delle masse e della folla. È vero che il sintomo, performativamente, muta in rapporto ai significanti, ma oggi le variabili sono il villaggio globale sospinto dall’accelerazione tecnologica che coinvolge e stravolge il sistema sanitario –medicale, prima di quello psicologico/psicoanalitico e sociale, tra loro mal correlati e tutti da ridefinire e riposizionare (si prenda ad esempio il proliferare di mode terapeutiche e formative che spesso sono forme di resistenza massiccia e ottusa all’analisi, contagio di ignoranza e spargimento di “sentito dire” rispetto a cui le persone di scienza non si smarcano, né si sottraggono in modo critico e colto). La tecnica e la psicoanalisi di Ella Sharpe vuol essere un ulteriore inizio di proposta culturale e scientifica, tenendo conto delle fonti e delle proposte intercorse (I saggi di Virginia Finzi Ghisi, 1966-1999, un secolo dopo l’Interpretazione dei sogni di Freud).
 
G.G.: Dirò, in conclusione, qualcosa di poco scientifico e… viscerale: queste Lezioni mi hanno fatto innamorare di un libro che ho letto e studiato con il piacere e le incombenze con cui si affronta un viaggio in un territorio familiare e straniero, perché ha aperto finestre della mia psiche che ancora l’esperienza lavorativa e quella psico-autoanalitica non erano riuscite nemmeno a farmi intravedere sulla superficie della mia interiorità. Le parole di Ella Sharpe mi hanno aiutato a risolvere alcuni problemini d’ansia, tra cui quello di una colite che perdurava da mesi senza che riuscissi a capirne la causa! J
 
Le parole con cui Ella Sharpe principia le sette Lezioni, sono: Queste Lezioni sono indirizzate ad allievi che, come voi, tramite un’analisi personale, si sono convinti della verità della scienza psicoanalitica. Vi vengono offerte nella speranza che un ulteriore punto di vista personale, maturato sulla base di una lunga esperienza, possa risultare prezioso nel vostro lavoro.
 
Perché hai deciso di curare magistralmente la traduzione di questo libro, nell’ambito della collana curata da Sergio Finzi, altro grande maestro che mi ha letteralmente sconvolto i canoni del sogno, e a quale pubblico è destinata La tecnica della psicoanalisi?
Ci puoi dire qualcosa della collana, cui appartiene il volume, La tradizione del piccolo Hans, Per un nuovo progetto di Psicoanalisi?
 
A.I.F.: Ti sono grato di questa tua testimonianza, così rara tra gli analisti/analizzanti/autoanalisti sul sintomo e sulla sua risoluzione relativa a curvature del sapere davvero inedite e inaudite. Ecco era destinata a te, a tanti amici, colleghi, allievi che attendono ulteriori idee, copertine, esiti di ricerche e volumi del Piccolo Hans, Cefalopodo, Ambulatorio, forme della natura, posti, luoghi, siti ed esiti di un sapere che restituisce l’oggetto al postumano e all’extra-umano, mutazioni epocali che Darwin avrebbe accolto e studiato con la passione che gli era propria.
 
La collana prevede in primis la digitalizzazione dei 100 numeri della rivista, quasi ventimila pagine di articoli, saggi, editoriali, recensioni scritti dai maggiori intellettuali del Novecento, ha pubblicato Le giunture del sogno e Nevrosi di guerra in tempo di pace di Sergio Finzi oltre a Ella Freeman Sharpe, accingendosi a ulteriori traduzioni e curatele della psicoanalisi classica con un nuovo numero di Ambulatorio e nuovi saggi degli autori che ruotano intorno alla nostra scuola

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Un po’ di psicoanalisi

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Intervista su “Il Giornale.it” del 16 Maggio 2014

 “Mi hanno salvato la vita ma ora non sono più me stesso. E allora chi hanno salvato?” (Augusto Iossa Fasano)

Fra le domande che complicano lo strascico di un tumore al seno c’ė anche quella sulle protesi: perchè molte soubrette ed attrici vanno fiere del loro seno rifatto e, al contrario, le donne che hanno avuto un tumore ( molto spesso ) detestano il loro seno finto? Eppure sempre di silicone si tratta…

Davanti a questo dato di fatto ci sembra di avere la spiegazione in tasca: le une, le soubrette, vanno sotto i ferri per un fine estetico, apparire e sentirsi più belle, le altre ci finiscono perché costrette, temono il ripresentarsi della malattia e la morte, ecco che il décolleté finto a loro ricorda tutto questo. Una sorta di tatuaggio del dolore. Se poi aggiungiamo le possibili infezioni e gli effetti dannosi e permanenti della radioterapia sulla pelle, è più facile che siano le donne che hanno avuto un cancro a non gradire le rotondità al silicone.

Questo è senz’altro vero, come è vero però il contrario: ritrovarsi con un seno bello, anche se finto, può contribuire a esaltare una femminilità che si credeva perduta.

Ma c’è ancora un’altra lettura. La protesi come fonte di disagio che accomuna entrambe le categorie di donne e anche tutti gli altri “portatori di protesi”. Motivo? Non si accetta di convivere con un corpo estraneo. Ce lo spiega bene Augusto Iossa Fasano, psichiatra e psicoanalista e autore del libro “Fuori di sè” (ETS edizioni)

“La medicina hi-tech, ogni giorno aiuta milioni di persone a migliorare la qualità della vita e a risolvere delicati problemi di salute. Abbiamo arti artificiali, organi trapiantati, protesi dentali, bypass, dispositivi medici di alta tecnologia che ci permettono di vivere trasformandoci. Le protesi sono un disagio inedito di cui non abbiamo idea. Stiamo male e non ne conosciamo il motivo. La causa di questo malessere è la mutazione del nostro corpo che poi può provocare un’alterazione dell’identità”.

“Un esempio noto a tutti è la spinta distruttiva che ha visto protagonista lo sportivo Pistorius arrivato ad uccidere la fidanzata – riflette Fasano –. L’oggetto che ripara un handicap, in questo caso l’arto artificiale, può far perdere il senso di sè”. Seguendo questo ragionamento, una carrozzella o un paio di occhiali (protesi mobili) sono meno “estranianti”, non rischiano di farci perdere l’identità.

Nel suo libro Iossa Fasano illustra diverse testimonianze di pentiti delle protesi che, dopo aver manifestato disturbi importanti (angoscia, depressione, crisi deliranti) decidono di farsi rimuovere l’oggetto “che aliena”.

L’autore parla di “uomo cyborg”, o bionico, un Goblin ( l’eterno nemico di Spiderman) con tanti superpoteri e l’incapacità di gestirli fino a morirne.

Che fare dunque? “Ci sono persone più a rischio di altre – ammette Iossa Fasano – l’importante è smascherare le nostre fragilità, riconoscerle, come si fa con un nemico. Purtroppo, se è vero che è condivisa la pratica di un sostegno psicologico per i trapiantati, non accade lo stesso per i portatori di protesi. Il messaggio del mio libro è anche questo. Non ci può essere medicina senza etica o senza relazioni interpersonali…”

Gioia Locati

 

 

Fonte: Blog.Giornale.it

Mario Spinella narratore e romanziere

Spinella

Mai come in una scheda dedicata alla vita e all’opera di Mario Spinella si avverte che lo sforzo di esposizione, sintesi e compressione di dati e date comporta il rischio di frantumare e spezzettare quel carattere unitario che la sua figura umana, il lavoro letterario, l’impegno intellettuale e politico recano.

Mario Spinella nasce a Varese nel 1918. Vive a Messina fino all’età di 18 anni quando viene ammesso alla Scuola Normale di Pisa, facoltà di Lettere. Si laurea e diviene lettore di italiano presso l’Università di Heidelberg dal 1940 al 1941. Chiamato alle armi nel 1942 viene espulso dal corso allievi ufficiali per “indegnità”, ovvero per antifascismo.

Nello stesso anno viene mandato in Russia con l’ARMIR. Nel 1987, quarantacinque anni più tardi Spinella narrerà la sua esperienza di guerra in Lettera da Kupjansk e nella sceneggiatura cinematografica Ipotesi per un soggetto del 1991. Due testi maturi che presentano gli antefatti delle vicende descritte in Memoria della resistenza, romanzo nel quale la letteratura innerva e informa la storia del periodo 1943-44. Anni nei quali Mario Spinella passa da posizioni liberal-socialiste alla militanza comunista e combatte in Toscana con i partigiani. Spirito narrativo e raffinato stile letterario precipitano una materia composta da osservazioni di prima mano di fatti storici, flusso di esperienza corporea sapientemente declinata secondo i classici da Ariosto a Guicciardini a Gadda a Proust e sulla base di una lettura antropologica di Marx condotta da Bloch a Gramsci.

Un taglio che informerà il suo lavoro redazionale come giornalista e critico nel ’48, in “Vie nuove”, negli anni immediatamente successivi in “Società”, “Rinascita” e “L’Unità”.

Si stabilisce a Milano e a partire dagli anni ‘50 dispiega le sue energie come promotore culturale e infaticabile organizzatore di iniziative sia presso la “Casa della Cultura” sia nei più diversi contesti insieme intellettuali e artistici.

Nei primi anni Sessanta cura con Salinari il volume Il pensiero di Gramsci.

Nel ‘68 pubblica Sorella H. Libera nos (Mondadori), monologo di un folle, vicino ai tipi della trilogia beckettiana e inauguralmente sensibile alle tematiche ecologiche, mentali ovvero ambientali dove la tecnologia e la chimica (ma anche lingua e scrittura lo sono) cimentano il corpo animale con lo status civile dell’uomo moderno.

Il romanzo Conspiratio oppositorum viene pubblicato da Mondadori nel ’71, introvabile, risulta sparito anche alla biblioteca Sormani di Milano…

I Padri Gesuiti lo chiamano all’Aloisianum a tenere corsi sul marxismo. Spinella vi insegnerà tra il 1969 e il 1974.

Nel ’71 nasce la rivista Utopia, Spinella ne è direttore responsabile. L’esperienza si estende nell’arco di tre annate: i fermenti del sessantotto prendono corpo in una posizione critica che ne fa riferimento al Marx dei Manoscritti, a Sade, a Bataille e alla scuola di Francoforte. Utopia si distingue dal marxismo scientista e dal movimento che la lotta armata pur mantenendo attenzione e dialogo con i diversi settori del pensiero. Utopia rappresenta un’esperienza di lavoro in cui filosofia letteratura antropologia e psicoanalisi convergono nella dimensione dell’etica. Stagione significativa per le nuove generazioni a indicare linee di riflessione e di ricerca ancor oggi tutte da sviluppare in rapporto, ad esempio, alle nuove tecnologie.

La ricchezza di idee maturate in Utopia dà vita nel ’74 a Il piccolo Hans, rivista di analisi materialistica dove psicoanalisi, arti visive, scienza, filosofia e letteratura consentono una formulazione di pensiero e di pratica terapeutica che, a partire dall’insegnamento di Lacan, assume un’autonoma e precisa fisionomia tuttora operante nella cultura e nel sociale. La costruzione in parallelo di teoria e di clinica trova Mario Spinella impegnato su di un territorio a lui congeniale.

Non va dimenticato che egli conduce un’ampia attività di curatore e traduttore di testi letterari e scientifici (tra i tantissimi contribuisce alla traduzione del Manuale di psichiatria di Silvano Arieti in 3 voll. sul quale si sono formate più generazioni di specialisti medici, si dedica alla traduzione e cura di Freud, Proust, Lacan, Teoria come finzione, all’introduzione di G. Lukacs Storia e coscienza di classe, di  V. Bonazza Lemigrante, alla prefazione de La cena delle ceneri e Racconto fiorentino di F. Fortini).

Insieme a Sergio Finzi dirige la Collana Bianca per Dedalo che accoglie testi saggistici innovativi italiani e stranieri, Le donne non la danno (Dedalo, 1982) “vero patchwork – secondo Giuliano Gramigna – di ironia e leggera saggezza, di alto e di infimo, che una volta tanto non convoca l’Ariosto ma il Boccaccio, l’opzione prevalente (di Spinella) è quella di un linguaggio culto, in una lettura non disperata ma materialistica del mondo, anche secondo la lezione della propria militanza politica”.

Il tema dell’animale vi compare – dopo il serpente di Sorella H. e il falco narratore di Lettera da Kupjansk – sotto forma di un tapiro marxista che, dapprima lento e impacciato, tiene a differenziarsi dal giaguaro il quale prende ciò che le donne non danno. Tapiro che, rivelatosi abile e intelligente, si dimostra capace di documentarsi sui sogni, idee e moti dell’animo i più intimi, non più appannaggio del solo genere umano servendosi di una società segreta composta da pressoché tutte le specie di animali.

Ancora Gramigna così ricorda la collaborazione con Spinella nell’Introduzione ad Amata Bradamante (Moretti & Vitali, volumi per soli abbonati al Cafalopodo 1/1995): “Non pochi dei saggi qui raccolti li abbiamo visti prendere corpo durante le riunioni di redazione del Piccolo Hans, da una frase, un suggerimento, una riflessione di Mario, quasi effetto di ciò che Roland Barthes chiama acolouthia – corteggio, compagnia di amici, spazio ideale nel quale “Io penso per loro ed essi pensano nella mia testa. È per questo che le pagine ariostesche che ora leggiamo si penetrano di una affettuosità che nulla detrae alla loro ingegnosità e finezza, né al nostro giudizio.”

Oltre al Guicciardini della Storia d’Italia e i classici moderni visti in chiave storica e culturale ampia per cui gli riesce la Woolf a Keynes, il Furioso viene a più riprese ricordato nell’opera narrativa, ad esempio in Memoria della resistenza: “Ho letto il poema di Ariosto solo nella tarda adolescenza […], poi l’ho sempre considerato come un “libro da capezzale”, portandomelo dietro persino in guerra in una minuscola edizione in carta India, ritornandovi più e più volte, innamorandomi – in senso quasi letterale – della sua Bradamante, solo contrastata dalla Gilberte di Proust”.

Insieme con Eco, Di Maggio, Calabrese, Leonetti, Balestrini, Corti, Porta, Volponi, Rovatti e Sassi fonda la rivista Alfabeta che esce dal ’79 all’88 e rappresenta una sorta di commiato da un modo classico di fare cultura, forse l’ultima esperienza cartacea incisiva e significativa prima dell’avvento delle nuove tecnologie e la proliferazione di proposte nel campo del sapere.

Vento di scirocco, Due inizi per un romanzo, e L’ “io” dello Zibaldone, compaiono postumi sul Cefalopodo 2/1998.

La questione della religione/spiritualità ricorre in più punti della sua opera, come in questo passo di Memoria in rapporto a fatti storici prossimi: “Ho saputo che i miei ospiti sono valdesi, emigrati dal Piemonte, e mi interesso alla loro religione che, questa volta, non provoca in me alcuna avversione. Sempre ho avuto una predilezione per le confessioni non conformiste, i culti di minoranza, le sette protestanti e, durante il mio soggiorno in Germania, ho trascorso lunghe ore sui grandi in folio dell’opera di Calvino […] il mito del Nord è forte nella mia coscienza, simbolo di intimità, nitore, ragione. Come ogni mito, anche di questo il fondamento reale è fragile: la profonda vena irrazionale sottesa a questa superficie levigata e lucida mi si è palesata in tutto il suo torbido schiumare, nella guerra dei tedeschi”.

Ambientato a New York My favorite things, il più polimorfo brano di un jazzista come Coltrane, capace di love supreme, dà il titolo a un racconto comparso come Notes magico sul Piccolo Hans 46/1985 e nucleo del suo romanzo inedito “Rock”, Spinella andrà ricordato soprattutto come narratore e romanziere, la sua opera merita ancora studio e approfondimento per la ricchezza multistratificata delle sue connessioni e per il particolare tipo di rapporto con la storia.

“Questa è un’opera di fantasia. Ogni riferimento a persone, luoghi, eventi reali è perciò da ritenersi meramente casuale. Del resto, come tutti sanno, non c’è mai stata né un’ A.R.M.I.R., né una una guerra, né una Russia.” (Lettera da Kupjansk) oppure, valga a chiudere, ancor oggi attualissima, la giustificazione della memoria: “Questa narrazione vuole essere semplicemente una testimonianza. Ciò vuol dire che non si propone né fini letterari né di documentazione storica. L’autore pertanto del tutto consapevole dei limiti, oggettivi e soggettivi, delle pagine che seguono, se le propone a un editore, dopo oltre dieci anni da quando vennero scritte, è soltanto perché ritiene che possano contribuire, in modesta misura, a far comprendere che cosa sia stato il fascismo. E di questi tempi, purtroppo, sembra che ve ne sia di nuovo bisogno, se ancora una volta i fascisti sparano per le strade e abusano della libertà con l’esplicito intento di distruggerla. Korčula, agosto 1972.”

Si spegne nell’aprile del ’94, un amico di antica data e forte affinità etica rivela che Mario, nonostante i profondi rivolgimenti storici cui aveva assistito negli ultimi tempi, si sentiva contento per quel che aveva realizzato nel corso dell’esistenza.

“Fuori di sé. Da Freud all’analisi del cyborg” Intervista al Professor Augusto Iossa Fasano

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L’impianto di protesi è un argomento di grande attualità. L’effetto straniante e di alterazione di sé come risultato di interventi chirurgici salvavita ad alta tecnologia, dell’impianto di protesi, ma anche di fecondazione assistita, della cura di tumori e di altri trattamenti farmacologici, genera il paradosso di una mutazione del corpo vissuta come alterazione patologica dell’identità psichica, oggi diagnosticabile e curabile

 

Gaianews.it  ha intervistato il  Prof. Augusto Iossa Fasano autore del libro “FUORI DI SE’ – da Freud all’analisi del cyborg” che ha spiegato che “il Cyborg, figura derivata dalla fantascienza e oggi di osservazione comune nella vita quotidiana è colui che per scelta di miglioramento e abbellimento o per necessità salvavita deve portare device, dispositivi (talvolta con chip e telecomando esterno, veri e propri computer interni al corpo) oppure organi da auto o etero-trapianto (talvolta da cadavere) che alterano la percezione di sé e il senso di identità. Non ci si riconosce più e non si riescono a governare le spinte di distanziamento o di attacco al sé”.

D.: Dottor Iossa Fasano quando ha cominciato ad occuparsi di ciò che è poi diventato argomento del libro “Fuori di sé. Da Freud all’analisi del cyborg”?

A.I.F.: Ho iniziato nel 1991 quando ho riscontrato che molti pazienti che accusavano disturbi psichici “puri”, avevano subito in precedenza traumi e cure hi-tech da cui erano usciti “fisicamente guariti”. Eppure il disagio residuo (ansia, depressione, ossessioni, insonnia e spinte autolesive o suicidarie) non era stato individuato, né correttamente diagnosticato o trattato. Venivano curati – quando curati se non trascurati – come persone che soffrivano di problematiche comuni o specificamente psichiatriche. Invece la questione si presenta in termini più complessi e giusto per questo la curabilità è migliore se si riescono a cogliere i termini del rapporto mente-corpo, mediato da dispositivi protesici”.

D.:Quali conseguenze reca a livello emotivo l’estensione del soggetto tramite oggetti estranei e inanimati?

A.I.F.: L’uso di protesi esterne non solo causa molto meno disagio, ma addirittura è costitutivo dell’essere umano e vedremo che tornerà utile per il recupero spontaneo o programmato di soggetti che sono costretti a portare protesi interne al corpo (Cyborg).

L’errore comune che sottolineerò nel prossimo libro divulgativo è definire cyborg gli individui protesici che usano device esterni. Per quanto tecnologici essi proseguono e sviluppano la linea dell’homo habilis, del sapiens e dell’uomo vitruviano del Rinascimento di leonardesca memoria.

Mentre il cyborg (che porta protesi fisse interne al suo corpo e di cui non si può liberare se non a rischio della vita) sceglie o subisce una mutazione radicale che lo spinge in un’accelerazione identitaria bruciante ed esaltante, ma non di rado distruttiva e dissipativa: non si riconosce, non si ritrova, non si conserva.

D.:Anche la fecondazione assistita genera il paradosso di una mutazione del corpo vissuta come alterazione dell’identità psichica?

A.I.F.: Assolutamente si. E’ uno dei casi più complessi e drammatici perché riguarda l’identità dei genitori e quella del nascituro secondo le varie casistiche dell’autologa, eterologa etc.

L’osservazione clinica ci conferma il disagio dei genitori specie delle madri e la necessità di seguirle con programmi di consulenza avvertiti e rispettosi. Si tratta di donne spesso in età matura per le quali basta poco per ritrovare le coordinate personali e familiari se la consultazione è affidata a un terapeuta esperto e specificamente preparato. Non basta una visita di un qualsiasi psichiatra o psicologo, perché nei programmi formativi di questi profili professionali non ci sono materie di approfondimento in questo settore così nuovo e delicato.

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D.:Con quali differenze nella psiche umana agiscono i dispositivi protesici esterni e i dispositivi interni al corpo?

A.I.F.: Quelli esterni sono visibili e autorimovibili (pensate alla possibilità di togliersi gli occhiali, la dentiera, il byte, un corsetto e altri dispositivi posti al di fuori del corpo come sollievo, relax o alla sera). Essi hanno un carattere estensivo oltre che protettivo e difensivo per il portatore. Confermano che l’identità umana non è omogenea, ma meticcia, polimorfa e eterogenea. E’ fatta di biologia, di carne, ma anche di materiali naturali (abiti, occhiali, tutori) e di sintesi biocompatibili come silicio, titanio, teflon ormai uniti e sinergici all’organismo.

Per quelli interni invece è tutta un’altra storia. Essi hanno effetto destabilizzante sul piano individuale e collettivo, sorta di rimozione collettiva. Si cerca sempre più di evitare il rigetto fisico, ma si deve valutare attentamente l’accettazione psichica di questi componenti quando vengono inseriti all’interno del corpo e il portatore non può smontarli alla sera quando va a letto o nei momenti in cui il vissuto di estraneità diviene insopportabile.

Precisazione: noi non siamo affatto contro la medicina hi-tech, anzi la vediamo con favore non solo perché necessaria e inevitabile, ma crediamo che la consulenza in pochi incontri sia spesso decisiva, come salute per l’individuo e risparmio risorse per la collettività.

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Fuori di se. “Da Freud all’analisi del cyborg”

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La medicina hi-tech ogni giorno aiuta milioni di persone a migliorare la qualità della vita, a risolvere delicati problemi di salute, a realizzare sogni che sembravano impossibili ma anche, nei casi più gravi, ad evitare che il cuore smetta improvvisamente di battere. Innesti bionici, protesi dentali, arti artificiali, bypass, dispositivi medici di alta tecnologia, fecondazione artificiale e chirurgia estetica stanno diventando alleati sempre più indispensabili per garantire all’uomo un’esistenza piacevole, totalizzante e in piena salute. Sì, ma a che prezzo? E’ quel che si chiede Augusto Iossa Fasano, psichiatra, psicoanalista e autore del libro ‘Fuori di sé. Da Freud all’analisi del cyborg’ (Edizioni ETS), un’analisi dettagliata e appassionata dei rischi correlati ad interventi chirurgici invasivi.

Il saggio, in particolare, mette a frutto la trentennale attività clinica e di ricerca svolta da Iossa Fasano per porre l’attenzione e focalizzarsi sulle conseguenze psicologiche con cui devono fare i conti i cyborg, o extra umani, ossia coloro che – proprio come alcuni dei più celebri super uomini raccontati dal cinema e dalla letteratura – hanno subìto interventi endo-protesici e che dunque si trovano a dover convivere per sempre con oggetti estranei nel loro corpo. Casi clinici alla mano, l’autore del libro dimostra come sempre più frequentemente i pazienti vengano colpiti da un diffuso disagio psichico: l’impianto di dispositivi interni, seppur salvifici, viene vissuto infatti come una mutazione del proprio corpo, a cui spesso fa seguito un’alterazione patologica dell’identità psichica.

Numerose sono le testimonianze raccolte da Iossa Fasano e riportate nel libro. Come la storia di una madre di due gemelli che, dopo un intervento oculistico in day hospital per la correzione chirurgica della miopia, a distanza di pochi mesi viene colpita da una profonda angoscia accompagnata da strazianti sensazioni di ricevere come dei morsi alle braccia inflitti da due individui che le sembra di conoscere. Oppure il caso di un uomo divenuto vittima di crisi allucinatorie e deliranti dopo un intervento di implantologia dentale endossea. Essendo tali impianti fissi per definizione, al paziente non era dato di smontarli da sé: un disagio divenuto talmente insopportabile da condurre l’uomo alla decisione di farsi rimuovere chirurgicamente quanto appena posizionato. E ancora, la vicenda di un trentenne caduto in depressione a ridosso del trapianto di fegato subìto dalla madre: la delicatezza dell’intervento aveva investito emotivamente l’intera famiglia della donna, portando il figlio ad abusare di droghe ed alcol. Numerosi, poi, gli episodi di disagio provati dalle madri che hanno scelto la fecondazione assistita, sia omologa che eterologa, o l’ovodonazione.

E’ dunque evidente come la questione vada ben oltre i confini della medicina, ponendo interrogativi riconducibili ai più vasti campi dell’etica, delle relazioni sociali e della filosofia: dalle teorie freudiane alla dicotomia corpo-mente, dagli istinti autodistruttivi dell’individuo al rapporto con una nuova identità, sono numerosi gli argomenti di riflessione che il lettore incontrerà sfogliando il libro, tra le cui pagine Iossa Fasano offre nuovi interessanti spunti di diagnosi, di prevenzione e di cura. ‘Fuori di sé’ si rivolge quindi agli addetti ai lavori, a coloro che direttamente o indirettamente si sono avvicinati ad operazioni del genere ma anche a tutti i lettori curiosi e interessati al rapporto tra scienza e società. Per capire fino a che punto, e con quali precauzioni, l’uomo potrà divenire cyborg e fare della tecnologia il suo elisir di lunga vita.

Augusto Iossa Fasano, medico, psichiatra, psicoanalista, si occupa di cura e consulenza dall’adolescenza all’età adulta, alla senilità avanzata. Fondatore e coordinatore del Centro Metandro, ispirato al pensiero neuroscientifico di Paul Valéry, si dedica alla formazione a partire dalla psicoanalisi freudiana declinata secondo la letteratura, il cinema, le arti plastiche e visive. Già redattore della rivista Il piccolo Hans, fondatore, coordinatore e direttore scientifico di Metandro (primo Centro italiano di cura e ricerca indipendente sulle quattro età della vita: infanzia, adolescenza, età adulta e senilità) a Milano e Pistoia, dove opera sulla base del Paradigma Bionico-Protesico

Fonte: Ufficio Stampa Augusto Iossa Fasano