DIAMO UNA PROTESI AL CYBORG

L’esperienza del trapianto muta l’identità del paziente. La configurazione derivante risulta di difficile inquadramento sia in condizione di compenso, sia in presenza di sofferenza e/o sintomi psicopatologici.

Sovente si osserva che la condizione del cyborg – portatore di organi da donatore o di device non auto-rimovibili – non giunge all’auspicato Nirvana della “guarigione”, bensì soggiace alla pulsione di morte (Todestriebe) con grave conflittualità autodistruttiva.

Lo studio dei processi di strutturazione soggettiva e intersoggettiva dimostra il ruolo decisivo della protesi nel contribuire a creare una radice identitaria che accolga l’oggetto inanimato nell’apparato psichico.

Secondo il paradigma antropologico “Protesi-Cyborg” l’individuo struttura la psiche servendosi di ausili esterni. La peculiare caratteristica di auto-rimovibilità dell’ausilio protesico determina la costituzione di un soggetto capace di duttilità, ibridazione e integrità.

Il focus del nostro modello sposta l’attenzione dalla fase post-operatoria, in cui il trapiantato, in quanto cyborg, può non riuscire a integrare il nuovo organo e la nuova identità, al periodo pre-operatorio nel corso del quale l’identità protesica – se supportata – può elaborare una mutazione in grado di sostenere la condizione cyborg.

Il setting basato su tale paradigma permette di non elidere la radice protesica, ma di ibridarla con organi, device e terapie chimiche in cronico, attraverso gli apporti della filosofia (da Eraclito a Derrida via Freud) e delle arti visive oltre alle neuroscienze.

Si prevede, dunque, una presa in carico longitudinale del paziente protesico a partire dalla fase di attesa del trapianto e oltre lo stesso al fine di recuperare, ripristinare e rafforzare le sue risorse protesiche, permettendo la pensabilità della nuova configurazione mutante cyborg.

Iossa Fasano A., Pignataro A., Peroni B., Soresi L.